Io, ogni volta che
vengo a Pesaro sbaglio strada
La stagione e l’ora non prevedono anima viva. Angolo di
acqua e cielo, rumore di mare “grosso” che sbatte e sbatte, cielo grigio
sempre, cerco voli di gabbiani, pace alla guerra, mi parla l’acqua, il cielo
che copre il sole, scrivo le mie lettere migliori, i miei migliori messaggi, le
mie migliori intenzioni con gli occhi riempiti di acqua e di cielo, di
orizzonte sfumato, di voli difficili da prendere, mentre il meglio finisce
sempre in quel punto lì, nell’attimo di smarrimento davanti al tutto che cerco,
che sono andata lì a cercare, resto lì basita e in bilico, lo sguardo ormai
perso dietro… dietro a cosa non so, allora respiro più forte, respiro il vento
che punge, l’odore dell’inverno, la stranezza di questa ora senza nessuno
attorno, il senso di essere soli.
Mi sono sentita forte solo quando un giorno sono arrivata
lì, ho respirato e ho scritto. Il silenzio forte, immediatamente dopo, mi ha fatto fuggire desolata da tutto quel
cielo indifferente.
Le mie migliori intenzioni, la mia migliore me, tutto cerco
dentro quel paesaggio al quale mi paro davanti, come una tana che non offre
rifugio, è troppa infinita quest’acqua troppo infinto questo cielo, a tratti fa
sentire me persa, come se non ci fosse posto. Eppure, sempre, ogni inverno, ci torno.
(Listening
to Nick Cave and the Bad Seeds : To be by your side)
Io, ogni volta che
vengo a Pesaro sbaglio strada, prendo sempre quella
E poi c’è una strada, uno stradone, sempre diritto, talmente
lungo che a volte, di notte, mi sembra di aver sorpassato il punto giusto dove
girare e penso E adesso? Come torno indietro? Se non cambio direzione fin dove
arrivo?
Mi meraviglia sempre quella strada, mi meraviglia quello che
mi fa trovare mentre la percorro, un improvviso campo giallo di girasoli a
destra quando è estate, un tramonto rosa
e arancio, nuvole che disegnano paesaggi appena sopra la testa, mi accorgo che
ogni volta che la imbocco cerco una canzone che mi piaccia particolarmente, che
mi dia l’idea di viaggio lungo, anche se lungo non sarà, e supero sempre il
limite di velocità consentito.
Un giorno il cielo era viola livido, si chiudeva sopra di
me, si ammassavano nuvole rabbiose, tutto era quieto, neanche gli alberi e le
foglie si muovevano, io guidavo e mi sembrava di andargli incontro, come se
prima o poi, fossi andata più vicino, mi avrebbe inghiottito. Ho avuto paura.
Ho raggiunto il semaforo che fermava la mia corsa e il cielo era di un colore
che non avevo mai visto, e ha iniziato a grandinare forte, a secchiate, e il
rumore dell’acqua e del ghiaccio che scendevano giù violenti copriva tutto, i
tergicristallo andavano a velocità massima eppure non riuscivano a spazzar via
quel muro d’acqua che mi cadeva addosso. Ho avuto paura. Un camion si era
appena scontrato con una macchina e tutti erano in strada e da fuori si sentivano le bestemmie del
camionista e io avevo paura e fretta di arrivare, io avevo fretta di arrivare,
e così ho continuato a guidare, col cuore che batteva forte di spavento e di
fretta.
La faccio ancora, quella strada, la faccio spesso, in
qualsiasi stagione o clima, è una strada che mi porta da persone care, forse le
più care della mia vita… sembra quasi che per arrivare a loro io debba fare
solo quella strada lì. E sempre, sempre mi sorprende, sempre mi piace, sempre
la attraverso spinta da sentimenti d’amore, e sempre, ogni volta che la prendo,
ogni volta mi torna in mente quel giorno e quell’ora e il colore livido di quel
cielo e quella paura e quella fretta di arrivare dove dovevo arrivare.
(Listening
to Antony & The Johnsons: Mysteries of Love)
Io, ogni volta che
vengo a Pesaro sbaglio strada, prendo sempre quella per casa tua
Il mio posto è il terrazzo di casa mia. E’ da lì che guardo.
E’ lì che è accaduta la mia vita migliore, la mia vita più forte. Questo spazio piccolo, a metà tra il non più
dentro e non del tutto fuori. Il posto dove ni viene naturale tutto, dove mi
ritrovo e cerco quando sento tutto perso.
E’ da qui cerco: un rettangolo di mondo fotografato e impresso,
quasi un quadro, sempre uguale sempre diverso.
Ho giocato a chi sputa i semi di cocomero più lontano con
gli amici, ho aspettato qualcuno a cena, ho passato notti a fumare sigarette,
con la luna sopra la testa e poi l’alba che era troppo tardi per andare a
dormire… L’alba – quel momento di luce trasparente dove tutto è possibile, da
aggrapparcisi con il pianto in gola, l’alba da sperare e da trovare, l’ho fotografata
mattina dopo mattina, mentre la stagione cambiava, era il mio dialogo tra muti:
buon giorno Francesca, buon giorno, vedrai!
Ci ho creduto, a quelle albe guardate appoggiata allo
stipite della finestra, un piede fuori uno ancora dentro.
La mia migliore me, in quel quadrato sospeso sulla via:
quella volta che ho ascoltato, quella volta che ho riso, quella volta che ho
confessato, quella volta che ho aspettato, quella volta che ho pianto forte,
quella volta che ho fatto silenzio, quella volta che non mi sarei mai più mossa
da lì.
Quand’ero piccola la domenica il nonno mi portava al campo
della Lupo, dove c’erano i ragazzi grandi che giocavano a basket, mi faceva
sedere sulle gradinate e mi dava una coppetta di panna montata.
Ci hanno costruito un condominio, sul campo della lupo, e
quando cercando casa sono entrata qui, c’è stata subito una cosa che mi ha
fatto scegliere questo posto: il suo terrazzino, sospeso sulla strada dove una
volta c’era il campo da basket, e da dove ancora si sentono i bambini che
giocano di pomeriggio dopo i compiti.
Vedi nonno, sono tornata, è questo l’unico posto, l’unica
strada giusta – non una deviazione, non un momento sovrappensiero, un lapsus da
correggere: io sono esattamente dove dovevo essere.
(Listening
to De Andrè: Hotel Supramonte)
da brividi.
RispondiEliminaLei, Signorina Francesca..mi piace un casino!